una foto di mario De Benedictis in gara nel 1990
Il racconto che riporto qui sotto è stato scritto, tempo fa, da Mario De Benedictis e si chiama " Il paradosso del competitore".
A volte mi capita di ricordare brani dei miei quattordici-quindici-sedici-anni che credevo definitivamente consegnati all'oblio di una dolorosissima rimozione. A volte- ma solo poche volte - riesco anche a sorridere di qualche episodio legato all'esperienza sportiva che feci in quegli anni: due ore e mezza senza mai fermarmi, in salita, in discesa e sul piano; sole, vento, pioggia e neve, da gennaio a dicembre. Mi allenava mio padre. Mi impediva di fermarmi quando avevo male ai tendini, quando mi veniva da piangere e c'erano ancora venti chilometri da fare. Mi sfotteva ricordandomi l'ultima sconfitta: ché quello non era l'evento che avvicinava l'eroe agli uomini, ma l'umiliazione al buon nome della famiglia. La sua. Ricordo di come cercavo d'inventarmi un modo per passare il tempo, quel tempo fatto di minuti che duravano ore, quando mi arrampicavo sui colli di Pescara, e di ore che fuggivano via come secondi, una volta a letto, la sera. Un modo era quello di dilatare il più possibile il riscaldamento - durava circa cinque chilometri - prima di tuffarmi in un'angosciante progressione cronometrica, nell'ennesima sfida quotidiana con l'avversario di turno (fratellino compreso, ahimè).Nella stagione agonistica '79/'80 cercai di dividere la mia solitudine marciando con Domenico. Quattordicenne come me, andava un po' più piano di me. Mio padre non avrebbe maiallenato un atleta bravo quanto il sottoscritto. Pur essendo mio coetaneo Domenico sembrava molto più maturo. Per intenderci, io, filiforme e piccino, dimostravo sì e no dodici-tredici anni; lui almeno quattro di più. Alto già quasi un metro e settanta, era di corporatura robusta; gambe come due tronchi e torace impettito a conferirgli un aspetto quasi tracotante. Domenico, con i suoi capelli rossi, grossi come fili di rame e ondulati, portati sempre in ordine. In quel periodo l'allenamento consisteva nel ripetere venti volte un circuito asfaltato di un chilometro. Teatro dello stillicidio podistico era la pineta D'Avalos di Pescara. Io e Domenico eravamo amici. Ventidue ore al giorno. Partivamo,dopo aver allacciato nervosamente le scarpette (guai fermarsi durante la prova!); iniziava così il riscaldamento su quel maledetto circuito. Un riscaldamento per modo di dire. La gara prendeva il via dal secondo chilometro, in barba alla regola dei cinque chilometri. Lo sguardo fisso oltre l'orizzonte, i piedi rapidi a guadagnare quei pochi ma preziosissimi metri che davano a me la certezza di una superiorità atletica - molto spesso soltanto psicologica - e a lui, il placido Domenico, Mimmo per gli amici (anche quelli per ventidue ore su ventiquattro), il segnale di un tragico conto alla rovescia. Mi spiego meglio. Mio padre stabiliva le regole del gioco. Dovevo doppiare Mimmo. Dargli cioè un chilometro di distacco entro venti chilometri. L'anello di grigio bitume diventava allora il Circo Massimo. I nostri sguardi si cercavano ad ogni giro, gli occhi come quelli di camaleonti in canottiera e pantaloncini: nervosissimi e indipendenti per lasciare la testa indifferente e persa in direzione dell'infinito (guai dare all'avversario l'impressione di essere osservato, di contare per l'altro, qualcosa).Cercavamo riferimenti: "questo giro gli ho preso quarantametri", "me ne ha dati quaranta, non mi doppierà mai", eccetera eccetera. E giorno dopo giorno il doppiaggio, da mio padre dato per scontato, chiedeva un tributo sempre più alto. Un'emorragia di zuccheri e sudore, impastata a imprecazioni luridissime - all'indirizzo dell'amico part time -, piccole cattiverie di cui ancora oggi mi pento sinceramente. E già. Perché se per me diventava sempre più difficile aggiungere qualcosa alla mia condizione atletica, per Mimmo i margini di miglioramento erano più ampi: aveva iniziato ad allenarsi da poco e, sebbene il suo talento non fosse grandissimo, tra noi la differenza,diciamo così, prestazionale, andava pian piano riducendosi. Mimmo ogni giorno era qualche metro più bravo. Così si consumò la sua vendetta bonsai, un capolavoro di filosofia eleatica. Quel giorno mi concesse circa cinquanta metri a giro, dandomi l'illusione di essere,come sempre, doppiato nelle ultimissime tornate. Ma così non fu. Mimmo era insolitamente tranquillo, non sbuffava come una locomotiva ingolfata. La sua azione appariva innaturalmente lineare, composta, terribilmente efficace. La sua testa, solitamente inclinata nel senso della curva,stava ben dritta, a cercare il traguardo (un chilometro più in là). Io non ne avevo quasi più e attendevo che l'amico part time andasse incontro al suo quotidiano destino di vittima sacrificale, immolata sull'ara dell'innocente sadismo di mio padre. A quattrocento metri circa dall'arrivo, quando avevo Mimmo a dieci passi da me, lo vidi partire. Al triplo della mia velocità. Praticamente irraggiungibile. E non valeva niente il fatto che io stavo concludendo e che lui aveva ancora un giro da compiere. Che gli avevo smollato, comunque, novecento e passa metri. Io avevo perso. Avevo perso per mio padre. Avevo perso per il passante che vide soltanto l'accelerazione di Mimmo. Su un circuito primo e secondo non esistono; e c'è un momento,eterno e immobile, in cui è il secondo a precedere il primo. Quella meravigliosa metafora esistenziale è uno dei doni più preziosi - soltanto oggi lo comprendo - avuti da un amico.